(PARTE 2 DI 3 - Trovate la prima parte un paio di post più in basso)
La Funzione Illustrazione
A quella libreria va aggiunto un bagaglio di esperienze, fatte di narrativa, cinema, viaggi e quotidiano, che formano la nostra capacità analitica.
Per gli studi che ho intrapreso, preferisco pensare a questa capacità analitica in senso matematico, più che filosofico. E mi piace immaginare che un’illustrazione sia come una funzione, il cui dominio e codominio vengono rappresentati in un sistema cartesiano: uno parte dall’Infinito Evocativo e arriva all’Infinito Narrativo; l’altro dall’Infinito Metonimico va verso l’Infinito Metaforico.
Quindi mi spiego meglio e chiarisco il concetto (tagliando tutto con un'accetta).
Dominio: evocativa e narrativa
Nel fumetto supereroistico americano, l’illustrazione evocativa in copertina è una consuetudine.
Copertina di Batman #701, Tony Daniel |
Il protagonista in posa estrema, il corpo teso, l’espressione drammatica, un urlo, alle sue spalle un’enorme esplosione… altre volte una posa solenne e la città sullo sfondo, tramonto… oppure un classico scontro col villain di turno, intorno panico e distruzione.
Muscoli e Potenza sono le parole d’ordine. Quello che ci viene raccontato è soprattutto il nostro (super)eroe e l’immagine ci lascia "sospesi".
Locandina di Bad Boys II - Bozzetto della copertina di John Doe #14 |
Copertina di John Doe #14 - Eroi per Sempre |
Le locandine del cinema Action americano hanno tradizionalmente un carattere evocativo. Per questa ragione io e gli autori di John Doe abbiamo scelto, nel dichiarato e ripetuto citazionismo della quarta stagione, di rendere omaggio a uno dei film più rappresentativi del genere: Bad Boys II, di Michael Bay.
Qui John è in secondo piano, perché comprimario. Il vero protagonista è David, che in fase di definitivo ho reso molto più possente, rispetto al bozzetto iniziale. Gli sguardi incrociano le direzioni per creare tensione e dinamismo: nella locandina originale Martin Lawrence guarda in macchina o al compagno, volendo sottendere la componente “comedy” e il ruolo di spalla a Will Smith.
(Questa cover non è proprio fra le mie preferite, ma era utile allo scopo)
Non c’è niente di meglio di Norman Rockwell invece per capire cos’è un’illustrazione narrativa.
New kids in the neighborhood, Norman Rockwell, 1967 |
“New kids in the neighborhood” fu dipinto tre anni dopo il famoso “The problem we all live with”, che puntava il dito contro l’America reazionaria e razzista difronte alle prime conquiste dell’emancipazione razziale.
È il 1967, il processo d’integrazione è inarrestabile e il paese, dopo aver perso l’innocenza con la Seconda Guerra Mondiale, si prepara a una dura presa di coscienza, perché il Vietnam non è affatto quello che ci si aspettava.
Ma intanto le famiglie di colore che raggiungono un tenore di vita medio borghese, vogliono reclamare la loro fetta di sogno americano, ed ecco i primi pionieri nei quartieri bene dell’uomo bianco.
Il ceto sociale dei due bambini, oltre che dal contesto urbano è raccontato dai dettagli (marchio di Rockwell): l’arredo, i vestiti, l'animale domestico e il fatto che la famiglia può permettersi una ditta di traslochi con lavoratori bianchi.
Ai due protagonisti (li definisco protagonisti per il loro aspetto, perché occupano la prima parte nella lettura dell’immagine e ne sono fulcro) si avvicinano tre giovani abitanti del quartiere: non a caso bambini, che hanno un atteggiamento più aperto e possibilista.
I tre sono in maggioranza e quindi possono “osare”; sono loro gli autoctoni ed è chiaramente espresso l’atteggiamento, nella postura e nello sguardo, ma sono anche intimiditi, curiosi di capire e forse aprire un dialogo con i due giovani invasori.
Forse in fin dei conti qualcosa li accomuna: hanno entrambi un animale da compagnia (sebbene ovviamente il cane e il gatto siano opposti per iconologia e colore), le bambine sono solite legare i capelli con un nastro rosa e i due “capobranco” indossano le stesse scarpe, ma soprattutto sono due amanti del baseball! Chissà che da un invito a fare due lanci non nasca una grande amicizia…
(Pochi notano che dalla finestra lì in fondo, un autoctono meno coraggioso sta spiando)
Bozzetto e w.i.p. della copertina di John Doe #20 |
Copertina di John Doe #20 - Flettendo i muscoli |
Quest’immagine racconta cos’è accaduto prima, cosa sta per accadere, dove ci troviamo, chi sono gli attori e quante speranze hanno i tre restanti membri della banda di uscirne illesi.
Le nuove grandi metropoli sorgono a oriente e perciò in fase di realizzazione ho scelto come set il profilo di Hong Kong. Se narrativamente mi sono rifatto a una serie di archetipi del genere, dal punto di vista stilistico ho voluto strizzare l’occhio ai videogames, che oggi offrono, più di qualsiasi altra piattaforma d’intrattenimento, l’esperienza di un’identità segreta, una missione da compiere e la possibilità di gonfiare di botte un sacco di cattivi.
Forse è più interessante notare quel passaggio intermedio, uno dei tanti.
Fu Massimo Carnevale a consigliarmi, un paio d’anni fa, di provare a “colorare” in bianco e nero. Molti illustratori prediligono questo sistema: permette di concentrarsi meglio sui toni ancor prima che sul colore… “l’occhio deve entrare e uscire dal disegno con facilità”, disse Massimo.
Codominio: metonimia e metafora
Un racconto, un romanzo, un film, una scena o anche una semplice immagine possono mantenere un registro metonimico piuttosto che metaforico, e viceversa.
La metonimia è una figura retorica con una definizione molto più complessa di quanto sia semplice farne uso. In soldoni consiste nell’utilizzare una parola o un’immagine per un’altra, o per un concetto più ampio e qualche volta una parte per il tutto.
Meglio fare qualche esempio.
Se dico “bevo un bicchiere”, non sto asserendo che provo a deglutire un bicchiere dopo averlo ridotto con qualche stregoneria allo stato liquido. Ma tutti sappiamo bene cosa intendo dire.
Allo stesso modo, se in un film il protagonista attraversa la hall di un lussuoso albergo, si avvicina a una porta recante l’insegna della toilette degli uomini e poi -stacco- lo vediamo lavarsi il viso davanti a uno specchio, per noi sarà chiaro che il resto della scena si sta svolgendo nella toilette degli uomini. Sarà chiaro, anche se la toilette non ci viene mostrata… sarà chiaro al punto tale che il regista non avrà neppure bisogno di girare la scena del lavandino e dello specchio in quella toilette, di quel lussuoso albergo.
Nel primo caso “bicchiere” è metonimia; nel secondo caso la metonimia è rappresentata da quell’insegna della toilette degli uomini: una parte per il tutto.
Facciamo un altro esempio: un’automobile inchioda derapando in mezzo alla strada, si aprono gli sportelli e due bellimbusti in borghese escono dall’auto, estraggono dalla fondina, si fanno scudo con le portiere e puntano le pistole verso una casa, uno dei due grida “esci fuori con le mani in alto”.
Per noi sarà chiaro che quei due bellimbusti sono detective e probabilmente in casa c’è un malvivente.
Ma nessuno ce l’ha raccontato: lo diamo per scontato perché abbiamo assistito a questa scena migliaia di volte.
La scena descritta è metonimia di un intero universo filmico.
E in sostanza possiamo affermare che la narrazione comune è tempestata di metonimie. Siamo continuamente soggetti ad applicare un codice di cui abbiamo già la chiave o ci viene fornita al momento.
Parlo di codice, e quindi di significato e significante, perché è di questo che si tratta.
Il linguaggio metonimico accede a quel bagaglio sociale di informazioni quotidiane, popolari, di uso corrente dalle quali siamo continuamente investiti, quei binomi significato-significante che accumuliamo in ogni momento, semplicemente vivendo.
Copertina di Julia #5, Marco Soldi, 1999 |
Ecco una situazione molto simile alla scena appena descritta.
Nessuno ci ha raccontato che alcuni pericolosi rapinatori sono assediati in quella gioielleria, chissà da quante ore (visto che è sera), e certamente hanno uno o più ostaggi, ma sarà proprio la nostra criminologa a dover ricoprire il ruolo più difficile. Eppure chi osserva questa copertina non ha altre aspettative.
Potremmo certamente dire che il bravissimo Marco Soldi ha realizzato un’illustrazione narrativa, mantenendo un registro metonimico.
Foto di documentazione per la realizzazione della copertina di John Doe #17 |
Copertina di John Doe #17 - Questa lunga storia d'amore |
Perché siamo certi che questa scena si svolga a scuola? …o meglio ancora, durante una lezione. Chi (o cosa) ci fa venire in mente che la compagna di classe osservata da un John adolescente sia Tempo (personaggio della serie)? La risposta a questo punto dovrebbe essere scontata.
A dire il vero, il pendaglio di Tempo funge da elemento metonimico o da elemento metaforico in relazione a chi conosce già questa serie oppure non l’ha mai letta. Ma approfondiremo il concetto fra un attimo.
Prendo a pretesto proprio questa copertina per raccontare che faccio largo uso delle foto di documentazione, anche quando l’illustrazione che devo produrre non ha uno stile prettamente realistico: le cerco in rete e, come molti altri colleghi, le scatto io stesso se non trovo il materiale di cui ho bisogno. In questo caso mi interessava capire quanto spazio si crea fra il braccio e la testa in quella posizione, quali pieghe vengono a formarsi e in quale modo potevo raccontare la mano di Tempo che gingilla col suo particolare pendaglio.
L’uso dei complementari e il gradiente di profondità dei caldi e dei freddi per staccare i piani sono Accademia.
Se però la narrazione metonimica attinge al nostro bagaglio sociale, quella metaforica fa leva sul bagaglio culturale del singolo. Una implica un trasferimento di significante e l’altra un trasferimento di significato.
Per fare qualche esempio, parto dalla narrativa.
Copertina della prima edizione originale, 1900 |
“Il meraviglioso mago di Oz”, che tutti conosciamo come il più importante romanzo della letteratura per bambini americana, in realtà è una grandissima metafora, perché esprime il pensiero di Frank Baum, autore e soprattutto ricco petroliere, riguardo alla massiccia deflazione che fece crollare i prezzi nell’economia americana alla fine dell’800. In quel momento molti contadini dell’ovest erano indebitati con le banche dell’est e il valore reale dei debiti, a causa della deflazione, aumentò. Alcuni politici populisti ipotizzarono l’assunzione dell’argento come moneta da affiancare all’oro, rompendo il regime di Gold Standard, per aumentare l’offerta di moneta complessiva, generare l’inflazione e riportare i prezzi a livelli normali.
Ogni personaggio e ambientazione del romanzo possono essere associati ai protagonisti e ai luoghi di questa vicenda politico-economica. Non è un caso che alla fine Dorothy ritrovi la via di casa non seguendo la strada gialla (il Gold Standard), ma grazie alle sue scarpette d’argento (secondo l’edizione originale).
Passiamo al cinema: la morte negata di Jack Nicholson in “Professione reporter” o la clava scagliata nel cielo in “2001, Odissea nello spazio” sono altri due esempi di narrazione metaforica, e più in generale lo è tutto il cinema di Antonioni e Kubrick.
Non solo sul piano della scrittura, ma anche nella regia.
2001, A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968 |
Afferriamo il senso di quest’inquadratura se conosciamo il Rinascimento (immaginate le varie visioni de La Città Ideale) e lo inseriamo nell’epica Kubrickiana, che soprattutto in questo film è fatta di scetticismo e demitizzazione della Ragione umana.
Procedendo dall’inquadratura all’illustrazione, ecco qualche esempio.
The Role of Art Critics, Emiliano Ponzi, 2012 |
Il bravissimo Emiliano Ponzi sulla critica d’arte contemporanea riesce a esprimere perfettamente una diffusa perplessità, che potremmo riassumere con il principio essenziale della Conoscenza di Anassagora: il simile conosce il simile. O più volgarmente potremmo interpretare in questo senso: il critico s’interessa a ciò che gli appartiene. Meglio ancora: il critico si interessa a ciò che torna alle proprie tasche… visto che si tratta di pantaloni.
Fra interpretazione di un’immagine metaforica e analisi del sogno c’è una certa analogia: la chiave di lettura può apparire complessa, ma il messaggio è sempre essenziale.
Copertina di 6 Messaggi per Ellery Queen, Ferenc Pintér, 1981 |
Ferenc Pintér, protagonista indiscusso sul mio scaffale “illustratori”, sembra voler tracciare con una mappa di graffi una verità assoluta: le parole (forse di un segreto) possono uccidere più delle pallottole.
Copertina di Batman - The 10 Cent Adventure, Dave Johnson, 2002 |
David Johnson riprende un’immagine iconica, apparsa per la prima volta come cover del numero 9 di Batman (1942), ad opera di Jack Burnley e poi reinterpretata, omaggiata nel corso dei decenni da un’infinità di autori: Norm Breyfogle, Jim Lee, David Mazzucchelli, Alex Ross…
Copertine di Batman #9, Jack Burnley, 1942 - Copertina di Batman with Robin #465, Norm Breyfogle, 1991 |
All Star Batman & Robin #9, Jim Lee, 2008 - Tratta da Batman: Year One #4 ( Batman #407), D. Mazzucchelli, 1987 |
Omaggio di Alex Ross alla copertina di Burnley |
Johnson capovolge il meccanismo. Non è Batman a dover temere che si faccia luce sulla sua maschera, ma Bruce Wayne, perché è lui ad indossare una maschera e quella luce, così come un’ombra descrive la forma di un oggetto, può svelare la vera natura del vizioso e stravagante miliardario da rotocalco: quella di un cavaliere oscuro. Il tema/conflitto della maschera e del personaggio è presente nel fumetto e nella visione di Tim Burton (Batman Returns), così come nei tre film di Nolan.
Copertina di John Doe #11 - For fans only |
John Doe che legge un fumetto di John Doe, che legge un fumetto di John Doe e così all’infinito.
Si chiama effetto Droste e venne coniato alla fine degli anni ’70, prendendo il nome da una marca olandese di cacao sulla cui confezione era presente un’immagine analoga.
Il numero 11 di John Doe, intitolato “For Fans Only”, è una pietra miliare all’interno di tutta la serie e in particolare della quarta stagione, quella del metafumetto.
Il nostro personaggio si fa uomo per scontrarsi coi suoi stessi autori, uomini che si fanno personaggi, perché crede di aver individuato in loro le “alte sfere” che controllano l’universo narrativo di cui John è Dio… ma lo scontro vede John sconfitto e condannato ad attraversare i “generi” finché non sarà degno di incontrare i veri padroni del suo destino: i lettori.
Spiegata in poche parole può sembrare una follia, soprattutto a chi non ha mai letto John Doe, e di fatto forse lo è…
Ma è anche la dimostrazione che solo chi possiede gli strumenti giusti, può capire il senso di questa copertina: parlo proprio dei “fans only” lettori di John Doe.
E il livello di interpretazione si fa più arduo se consideriamo che quattro oggetti inseriti nell’illustrazione sono metafore degli autori stessi, perché in realtà rappresentano un momento fondamentale della loro carriera… lascio ai curiosi l’ardua ricerca.
Tirando le somme, potremmo dire che un’illustrazione può essere evocativa, narrativa, metonimica, metaforica o avere, nello spazio e nel tempo di percezione, entrambe queste caratteristiche. Come accade per un racconto o un film, la lettura di una singola immagine è un percorso fatto di momenti e dettagli, costituiti dalla forma e dal contenuto dell’immagine stessa.
Per mantenere il parallelo matematico, anche lo sviluppo di una Funzione Illustrazione [f(i)] sarà costituito da un insieme infinito di punti, corrispondenti ognuno a una differente ascissa e ordinata.
TO BE CONTINUED
(a martedì prossimo)
(a martedì prossimo)
3 commenti:
Come definiresti le copertine di Ambrosini per il suo Napoleone?
Frank
Su Ambrosini non posso essere obiettivo, perché è un autore che adoro.
Seguendo quello schema e tagliando con l'accetta, direi metaforiche più che metonimiche ed evocative tanto quanto narrative (forse un pelo di più), ma tutte bellissime.
Appreciate your bloog post
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